GUARDA IN SU', GUARDA IN GIU'
in memoria di Guy Debord


Muoversi obbliga a una relazione percettiva con lo spazio. Relazione che si stabilisce principalmente attraverso la vista. È per mezzo degli occhi che raccogliamo i dati necessari al mantenimento della direzione, all’orientamento, al perseguimento dello scopo, al raggiungimento della nostra meta. Ed è sempre per mezzo degli occhi che, anche in assenza di un luogo preciso da raggiungere, decidiamo come proseguire e dove andare, assecondando un continuo aggiustamento di rotta, in base agli esiti di una contrattazione che coinvolge e mette a confronto la dimensione misteriosa dell’avventura, dello spaesamento, del sentirsi persi (per quanto possa accadere nella città), con quella necessità di sicurezza che nostro malgrado ci appartiene. La necessità di sapere dove siamo, di fare corrispondere la nostra posizione a un preciso punto convenzionalmente noto e inequivocabile, ri-evocabile e rintracciabile in una vista zenitale o satellitare. In ogni stazione di osservazione che ho deciso di considerare durante l’attraversamento, ho fotografato il cielo sopra la mia testa e la terra sotto i miei piedi. Due punti che, uniti e messi in relazione, corrispondono a un’unica coordinata del Sistema di Posizionamento Globale (GPS). Due punti che però, nel sistema delle immagini raccolte da chi si muove nello spazio, nonostante ci mostrino esattamente l’occhio del satellite e la posizione precisa su cui è posato, non ci danno alcuna possibilità di sapere dove siamo.
Green(s)trip - Salone degli Incanti – Trieste, 2010
a cura di Elena Marchigiani
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